mercoledì 13 febbraio 2019

L'ISOLA DEI CANI


Giappone, 2037. Il dodicenne Atari Kobayashi va alla ricerca del suo amato cane dopo che, per un decreto esecutivo a causa di un'influenza canina, tutti i cani di Megasaki City vengono mandati in esilio in una vasta discarica chiamata Trash Island. Atari parte da solo nel suo Junior-Turbo Prop e vola attraverso il fiume alla ricerca del suo cane da guardia, Spots. Lì, con l'aiuto di un branco di nuovi amici a quattro zampe, inizia un percorso finalizzato alla loro liberazione.

Wes Anderson, film dopo film, sta affinando una caratteristica del tutto peculiare che lo colloca ormai, a buon diritto, tra i Maestri del cinema contemporaneo.
È praticamente uno dei pochissimi registi, ma sicuramente quello con gli esiti più produttivi di senso, in grado di saturare le inquadrature con una miriade di elementi senza però perdersi in un barocchismo o in un compiacimento fini a se stessi. Salvo poi, nell'inquadratura successiva, svuotare lo schermo per affidarlo a un singolo elemento in un ampio spazio. Nel suo cinema la messa in scena conta infinitamente di più della storia che però comunque non si limita a fare da tappeto narrativo per le immagini. Come in questo caso, dove si racconta di non di un 'muro' ma di qualcosa di analogo: un'isola dove poter allontanare gli indesiderabili.Partendo da un pretesto reale (l'influenza canina) ma fingendo che non sia possibile alcun rimedio in proposito e che quindi l'unica soluzione per 'proteggersi' sia il respingimento. 

Il contestualizzare tutto ciò in ambito nipponico non significa voler evitare un attacco diretto alla politica del proprio Paese da parte di Anderson. Così come è disceso negli abissi marini con Steve Zissou o ha viaggiato nel Darjeeling con i fratelli Whitman per poi addentarsi nei corridoi e nelle stanze del Grand Budapest Hotel, ora vuole nuovamente sperimentare facendosi accompagnare dal piccolo Atari.
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domenica 6 gennaio 2019

RED SPARROW


Dominika Egorova è la prima ballerina del Bolshoi e la figlia di una donna sola e ammalata, di cui si prende cura con affetto e devozione. Quando un brutto incidente pone bruscamente fine alla sua carriera sulle punte, minacciando la sussistenza economica della madre, Dominika accetta la proposta dello zio Vanja, potente vicedirettore del SVR, di servire il governo di Mosca divenendo una Sparrow: un'agente pronta a tutto, un'arma di seduzione letale. Dentro di sé, però, la ragazza disprezza i metodi del governo e coltiva un piano segreto.

Tratto da un romanzo di spionaggio di grande successo, esordio letterario dell'ex agente della CIA Jason Matthews, nelle mani del regista di tre Hunger Games e della loro eroina, Red Sparrow ci guadagna su due fronti opposti e contraddittori, divenendo un film più magnetico e accattivante, da una parte, ma anche molto più scoperto e ingenuo dall'altra, il ché non è esattamente una qualità in materia di spie e spionaggio.
Il magnetismo è prerogativa assoluta di Jennifer Lawrence: l'obiettivo del regista si pone totalmente al suo servizio, ammaliato come ogni personaggio sulla sua strada; ne illumina e scandaglia il corpo e la mente, finendo per arrendersi al mistero di entrambi, al termine di ogni scena, e per restituire una perfetta sincronia tra i movimenti della trama, numerosi e ben articolati, e il "balletto" psicologico della protagonista. 
A guastare il piano ben congegnato è, però, la fretta con la quale il personaggio della Lawrence individua nel collega americano la sua via di salvezza. Una fretta che appare tutta ideologica e troppo smaccata per servire un racconto che si regge (o dovrebbe reggersi) sul mantenere fino all'ultimo il mistero riguardo le reali intenzioni dei personaggi. Se si aggiunge che è già presente una scelta di cast che divide piuttosto smaccatamente i "buoni" filoamericani e i "cattivi" pseudo russi, un tentennamento di servizio, o anche solo la parvenza di un dubbio, avrebbe fatto gioco. Perché la verità - e il motivo per cui non arriviamo a desiderare che Dominika Egorova segua il destino seriale di Jason Bourne- è cheRed Sparrow è un film più triviale e sguaiato di quel che appare di primo acchito. Ci confonde con le luci del teatro, i cappotti di pelliccia, il biondo perfetto dei capelli, lo slancio delle gambe, ma è solo una copertura. Come il campo di addestramento di Charlotte Rampling, di gran lunga più simile ad una "scuola per prostitute" (come ammette Dominika stessa) che ad un'accademia militare, il film di Francis Lawrence, per quanto di efficace intrattenimento, è irrimediabilmente sprovvisto di eleganza, nudo di fronte al ricordo di un Allied o di un La talpa.
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domenica 16 dicembre 2018

EVERYTHING SUCKS!


C'era una volta un mondo in cui per connettersi a internet era necessario aspettare qualche minuto. Attimi di paziente attesa trascorsi nell'ascolto della contrazione di intere nebulose di dati, elaborate faticosamente da modem installati su sistema operativo Windows 95. Un mondo senza smartphone, senza tablet, senza talent in tv. La musica pop era quella delle instant band - Take That e Spice Girl a contrastare il fenomeno Britney Spears - e non c'erano le visualizzazioni di YouTube a decidere chi avesse la meglio nello scontro fra titani Oasis vs Blur.

Quel mondo erano gli anni Novanta, tornati di recente nell'immaginario collettivo con lo stesso devastante effetto vintage-nostalgia già toccato agli anni Ottanta.
Li ricorda il cinema, con sequel o remake di film che segnarono il decennio (ItJurassic ParkTrainspotting), ci riflette la letteratura (Notti magiche: atlante sentimentale degli anni Novanta di Enrico Buonanno e Luca Mastrantonio), la tv generalista (Novanta Special), la fiction italiana (19921993), ci tornano i maestri (Twin Peaks - Il Ritorno), ci cascano i videogiochi (le edizioni speciali di Monkey Island) e i cartoni animati (Duck Tales). E a coronare il grande ritorno del decennio dello Swatch, del cd e del modem arriva anche Netflix, che - dopo aver restituito luci e ombre degli anni Ottanta con serie come Stranger Things o Dark - dal 16 febbraio aziona la macchina del tempo per riportarci nel 1996, con le dieci puntate di Everything Sucks!.
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martedì 6 novembre 2018

READY PLAYER ONE


Columbus, Ohio, 2045. La maggior parte dell'umanità, afflitta dalla miseria e dalla mancanza di prospettive, si rifugia in Oasis, una realtà virtuale creata dal geniale James Halliday. Quest'ultimo, prima di morire, rivela la presenza in Oasis di un easter egg, un livello segreto che consente, a chi lo trova e vince ogni sfida, di ottenere il controllo di Oasis. 
Fin dalle prime anticipazioni, Ready Player One ha generato un'enorme aspettativa. La musica deliziosamente anni Ottanta e kitsch. La sfida tecnologica che vede Steven Spielberg alle prese con il digitale come mai prima d'ora.

La sensazione di un'opera definitiva sull'escapismo e il citazionismo, fenomeni che contraddistinguono, e in parte bloccano, la nostra epoca.
A conti fatti, forse "definitiva" non è la parola adatta per contraddistinguere Ready Player One, ma per una precisa intenzione dell'autore più che per un fallimento. A Spielberg interessava confezionare il perfetto meccanismo di intrattenimento, non una riflessione filosofica su sogni e bisogni dell'uomo. Portando fino in fondo la schizofrenia che caratterizza la sua carriera, in cui il narratore storico di Lincoln e The Post convive felicemente con il Peter Pan di Hook o di Ready Player One. Non c'è condanna dell'escapismo, ma umana comprensione per chi evade da una realtà priva di speranze. E se il ritorno al reale è un passaggio obbligato per il successo dell'eroe, questo non contraddice il fatto che il protagonista Wade, senza aver trascorso tonnellate di ore in Oasis, non avrebbe mai avuto una chance di salvezza. 

Il videogioco e la cultura satellitare del microcosmo nerd rappresentano un sostegno e una lezione di vita. La forza trascinante di Oasis, che mira a un livello di capacità immersiva degna dei migliori videogame, è ancor più percepibile quando accostata alle scene ambientate nel mondo reale, dimesse e ordinarie, a tal punto da non sembrare girate dallo stesso regista. Se anche nella visione di Matrix realtà e virtuale erano contrapposti e la prima era dominata da colori grigi e paesaggi desolanti, il senso attribuito al virtuale è opposto: prigione per i Wachowski, oasi e unica speranza per Spielberg.
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martedì 23 ottobre 2018

A CASA TUTTI BENE


Pietro e Alba festeggiano cinquant'anni d'amore. Dal loro matrimonio sono nati Carlo, Sara e Paolo, imbarcati con coniuge, prole, zie e cugine per un'isola del Sud. In quel luogo ameno, in cui Pietro e Alba hanno speso il loro tempo più bello, si riunisce una famiglia sull'orlo di una crisi di nervi. Carlo, separato da Elettra, è vessato da Ginevra, la nuova e insopportabile consorte, Sara, sposata con Diego, cerca di recuperare un matrimonio alla deriva, Paolo, cacciato dalla moglie e disprezzato dal figlio a causa di un tradimento, gira a vuoto e finisce a letto con la cugina. E poi c'è Riccardo che aspetta un figlio da Luana ed elemosina una (seconda) chance allo zio Pietro, Elettra che prova a fare fronte alla gelosia di Ginevra e Isabella, moglie annoiata di un marito troppo lontano che tradisce con Paolo. Il mare grosso e un temporale improvviso, impediscono le partenze dei traghetti e costringono gli invitati a prolungare soggiorno, convivenza e agonia. Satelliti nevrotici intorno agli 'sposi' provano a passare una nottata che non passa e non passerà.

Frustrati, infelici e tutti inguaribilmente narcisisti, i personaggi di Gabriele Muccino restano fedeli a se stessi e a una trilogia ideale di baci presi e dati dentro un cinema ombelicale.
A casa tutti bene, a dispetto del titolo evidentemente ironico, è una commedia "che sta male". Stanno male i suoi personaggi, tutti piccoli piccoli e alle prese coi contrasti e i conflitti (mai risolti se non a colpi di sceneggiatura) dei capitoli precedenti (L'ultimo bacio e Baciami ancora). Muovendosi con flusso ondivago dall'uno all'altro, A casa tutti bene comincia con la voce fuori campo di Stefano Accorsi, decano del genere, che sembra voler focalizzare la vicenda da un punto di vista soggettivo, ma poi la voce si perde nell'isteria collettiva, torna per un istante col timbro di Pierfrancesco Favino, per poi scomparire definitivamente, dichiarando la difficoltà a trovare un punto di vista. Sulla vicenda narrata, sui suoi personaggi.

Lo sguardo dell'autore va e viene, fugge e ritorna, tradisce e si pente alla maniera dei suoi protagonisti e coerente con quel nomadismo sentimentale che è da sempre la sua cifra e che da sempre li riguarda. Ma poi qualcosa accade, qualcosa di inaspettato e inaspettatamente sorprendente. Quella che sembrava l'ultima ed ennesima versione della sindrome di Peter Pan infila la deriva e traghetta le sue anime oltre la linea d'ombra. A questo giro di giostra i baci sono amari e conducono all'appuntamento con le scelte irreversibili della vita. A questo giro, ancora, non ci sono effetti di campo o di copione a blandire, soccorrere e assolvere i personaggi. Condotti al loro punto di rottura, con modalità diverse e appropriate al registro degli attori in campo, i protagonisti dovranno (finalmente) fare delle scelte, confrontarsi (senza sconti) con la propria narcisistica immaturità. Niente famiglie ricompattate al capezzale di un padre malato (Ricordati di me) o di un figlio in arrivo (L'ultimo bacio).
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martedì 18 settembre 2018

IL SOLE A MEZZANOTTE - MIDNIGHT SUN


Katie ha diciassette anni, adora la musica e ama profondamente suo padre, genitore, educatore, amico. Orfana di madre, Katie è affetta da Xeroderma Pigmentoso, una rara patologia genetica che causa ipersensibilità alla luce del sole. Costretta dalla culla a un'esistenza ritirata e oscurata dietro vetri speciali, Katie guarda passare la vita degli altri e prova a vivere la sua con l'aiuto di Morgan, l'amica del cuore. Sotto alla sua finestra scorrazza da sempre anche Charlie, il ragazzo con lo skate che le ha rubato il cuore alle elementari. Seduta in stazione a cantare una delle sue canzoni, una notte lo incontra e lo innamora perdutamente. Katie vorrebbe fuggire ma l'amore è come il sole, impossibile proteggersi.

Non è un vampiro Katie ma la sua pelle soffre la fotosensibilità estrema dei vampiri. Dei vampiri ha pure il pallore lunare e la fame di vita incarnata dall'adolescente di Patrick Schwarzenneger, che dal padre eredita la fronte alta e la presenza (quasi) esotica.
Figlio del principe del bodybuilding, che aveva scolpito il corpo a misura del suo sogno (americano), trasformando ogni apparizione sullo schermo in un prodigio, Patrick assomiglia più al principe azzurro delle favole, di una favola d'amore agita nel territorio del desiderio maschile. Inversamente a Twilight è Charlie a desiderare ostinatamente una fanciulla, a subire la fascinazione di una creatura che vorrebbe tanto amarlo ma ha paura di ucciderlo. Non a morsi ma di dolore. Perché Katie è malata e non sa quante notti le restano per consumare il suo desiderio, perché Katie vive ogni giorno come fosse ultimo, perché Katie sa dove vuole andare ma non saprà mai quante e quali variabili si accaniranno per impedire il raggiungimento della destinazione. 

Teen-movie sentimentale e notturno, gravato da una malattia genetica ereditaria che predispone all'insorgenza di carcinomi, Il sole a mezzanotte - Midnight Sun fa il suo lavoro e lo fa bene, esplorando l'abbagliamento del primo amore e applicando senza cadute i codici del genere: il montaggio spensierato a colpi di baci sotto le stelle, sotto i capelli sciolti e le lune piene, dentro bagni lunari e contro ostacoli drammatici che riconducono al duro principio di realtà. Diretto da Scott Speer, il romantic-drama di Katie e Charlie elude l'overdose e il côté sciropposo, le trappole della disgrazia e quelle della compassione, seguendo un'educazione sentimentale piena e fatale che ha voglia di vivere al di là delle difficoltà incontrate o imposte dalla sorte. Lui ha le spalle larghe (da nuotatore) e la mascella serrata, lei un candore verginale e una dolcezza risplendente più del sole che la uccide.
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sabato 11 agosto 2018

LORO 1


Faccendieri ambiziosi e imprenditori rampanti, cortigiane - vergini per niente candide che si offrono al drago, addestrate da molti anni di pubblicità sessiste e trasmissioni strillate - politici corrotti, giullari, acrobate: è il circo che sta intorno a Silvio Berlusconi, nella "rielaborazione e reinterpretazione a fini artistici" messa in scena da Paolo Sorrentino.

È davvero impossibile dare una valutazione di Lorobasandosi solo sulla prima parte, senza indicazioni su dove andrà a parare il film completo.
Tanto più che Loro 1 è già due film in uno. Il primo vede al centro, appunto, Loro, che non sono "quelli che contano", ma gli squallidi frequentatori del suk di cui sopra. Il principio è lo stesso de Il divo: raccontare un politico italiano di immenso potere evidenziando innanzitutto il sottomondo che lo circonda, al contempo sua emanazione e suo brodo di coltura. Il secondo, passata la metà del tempo filmico, vede al centro Lui-Lui, quel Silvio che viene nominato per la prima volta (e solo col nome proprio) a narrazione avviata. E se il mondo di 'Loro' è sovraffollato di figure minori (memorabile il cammeo di Ricky Memphis nei panni di uno dei tanti Ricucci dell'orto dei miracoli), quello di Lui-Lui è un eremo cui hanno accesso solo Veronica e Mariano Apicella (più un suo rivale di cui non sarebbe corretto anticipare il nome).

L'elemento di maggiore impatto drammaturgico in Loro 1 è la luce piatta che delinea un'umanità bidimensionale e del tutto priva di spessore. La fotografia di Luca Bigazzi, solitamente ansiosa di scavare nell'ombra, qui rimane saldamente in superficie, creando una maschera filmica paragonabile al cerone di Lui-Lui, al tatuaggio (sempre nell'effige di Lui-Lui) che compare sul fondoschiena di un'atletica concubina, e alla cartapesta che replica l'effige dei leader della sinistra nel patetico spettacolino messo in scena per il Loro diletto (c'è anche D'Alema, che più tardi fa un altro cammeo dentro un sacco della spazzatura).
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